Un po’ di storia e la
scoperta dei Plettri
Caro Arnold, mi domandi un
po’ di storia del come mi sono avvicinato agli strumenti a plettro, al
mandolino.
Ripercorrere con la memoria gli
avvenimenti che mi hanno portato a lasciarmi sedurre dal suono musicale di uno
strumento come il mandolino un po’ mi costringe a rievocare attraverso la
patina del tempo diversi momenti, a volte distanti nel tempo di allora, a volte
senza una ragione precisa, ma avvenimenti direi occasionali a cui io prestavo
una attenzione che oggi direi del tutto irrazionale, libera.
Tuttora nel mio paese d’origine la musica popolare, la “laikì
moussikì” insieme alla “dimotikì moussikì” è sempre presente e nonostante l’inquinamento
acustico dovuto sia alla imposizione di sonorità
stupide e razionali (le due cose ho scoperto che stanno sempre insieme) sia per il costante
annullamento che agisce la cultura musicale imposta dalle multinazionali della
produzione, consumo e diffusione musicale
nei confronti di tutto ciò che cerca di svilupparsi senza recidersi
dalle sue origini storiche.
Negli anni
cinquanta e sessanta – per esperienza diretta – anche grazie alla diffusione
degli apparecchi radiofonici e poi dei dischi, la musica “popolare” non solo veniva diffusa ma anche, e soprattutto, rinnovata. La strada
solcata da Vassilis Tsitsanis, anche se non l’unico da cui molti compositori
“colti” come Skalkottas traevano ispirazione e suggerimenti
melodici per poi scrivere componimenti di affascinante originalità, portava a
Hadjidakis, a Theodorakis, al giovane allora Xarhàkos e anche ad altri molto
interessanti musicalmente colleghi. E noi ragazzi ascoltatori con sempre
maggiore trepidazione giravamo la manopola della sintonia a cercare quei canali
radiofonici in cui queste musiche nuove venivano
sparse. Le sonorità derivate dalla Asia minore (la costa turca che si affaccia sull’Egeo,
culla della “conservazione” della
cultura greca – Efeso ecc.) attraverso gli emigrati greci in Grecia venivano
immediamente assunte come linguaggio naturale dalla gente di tutto il paese che
lasciava da parte e senza tante cerimonie tutto quello che la cultura musicale
decadente occidentale nonché quella colonizzante americana aveva imposto fino a
quegli anni, dal periodo che va da prima a fino al dopo la seconda guerra
mondiale. E questo non era un tornare indietro, non
era un recupero nostalgico di conservatori incalliti che a loro volta
annullavano il nuovo, il progresso, il moderno. No. Era qualcosa di diverso.
Questa mia
asserzione monosillabica di prima trae la sua forza dal fatto che nelle coste della Asia minore la musica non aveva perso il suo rapporto
sonoro, storico con quella della antica Grecia, un lunghissimo ponte dai greci
di Efeso, le vicine Cicladi e dintorni, tramite i bizantini fino ai
commercianti e artigiani greci che popolavano quelle coste e che, appunto, nel
primo novecento sono stati espulsi e costretti a “tornare” a vivere emigrati in
quella patria che li vedeva originari da millenni. E qui e con queste
considerazioni storiche mi piacerebbe aggiungere un altro pensiero che contribuirebbe
a chiarire un'altra questione riguardo questa musica che con una parola
“rembètiki moussikì” veniva definita come musica
appartenente ed espressione autentica di un sottoproletariato greco in rivolta
sociale. Bisogna correggere questa leggenda che fa soltanto confusione e
intenzionalmente attribuisce una valenza artistica creativa alla cultura della
sofferenza e della droga, come se derivasse da esse.
Possiamo dire che queste persone prendevano “a prestito” sonorità create da
tensioni musicali particolari (l’uso delle scale antiche e specialmente quella
dell’ipofrigio cromatico) perché corrispondeva allo stato d’animo, all’ethos
che vivevano nel loro essere relegati, proscritti, emarginati da una società asfittica, codina e
piccolo borghese. Tensioni simili e a volte ancor più sviluppate le troviamo nella musica Araba ad esempio della zona
dell’Afganistan che come si sa è una zona in cui Alessandro il macedone aveva
costruito città intere come per esempio Kandahar che
vuol dire proprio città di Alessando il grande.
Strane ma
affascinanti storie davvero.
Ora, il “suono” di queste persone, il loro humus musicale che
si basava esclusivamente su scale antiche – a volte, il più delle volte a loro
totale insaputa – veniva realizzato con il Bouzouki,
il Violino, il Mandolino e tutta quella serie di strumenti a pizzico dalla
derivazione davvero remotissima.
Nel mio paese di circa seimila persone che si trova nel centro dell’Attica c’erano molti di questi emigrati
in patria e quello che mi piaceva era che suonavano e cantavano sempre. Il
sarto che all’improvviso mollava giù i ferro da stiro a carboni accesi e impugnava
il suo violino e si faceva una sonatina come preso da una strana e improvvisa
voglia di dire qualcosa al mondo. O come il macellaio che canticchiando
sottovoce nel mentre faceva un bel taglio di carne ad una bella contadina
e quando lei gli chiedeva: _Che state cantando Sor Kostantino?, lui, che in fondo non vedeva l’ora,
da dietro la tenda del retrobottega sganciava dal chiodo il sempre pronto
mandolino e a voce ora piena ora improvvisamente morbida si accompagnava il
canto che faceva veramente venire la pelle d’oca anche a me bambino. Evidentemente
con la bella contadina si piacevano molto. In un altro breve scritto “Il mandolino ritrovato”
ho un po’ raccontato le mie sensazione e l’avvicinarmi
a questo strumento in quell’epoca lontana.
Ecco, sarà
fortuna, sarà interesse personale, sarà una mia profonda risposta allo stimolo
musicale che aveva queste caratteristiche (le tensioni melodiche e poliritmiche
non “classiche e accademiche”), sarà la mia esigenza di una lingua musicale ini
cui questi suoni si trovavo a suonare piu veri più belli
e più corispondenti alle mie “immagini” ed emozioni musicali, sarà tutto questo
insieme, non lo so, ma è un fatto che la mia prima composizione è con mandolino
e pianoforte.
Adopero volutamente la parola con e non per mandolino e non
perché io l’ho composta con lo strumento in mano. Ma
con l’identità dello strumento, con
quello che solo questo strumento offre nello spazio acustico compreso il
tremolo che tuttora fa storcere il naso agli aridi puristi.
Ora, dopo
tanti anni, lo posso dire con maggiore semplicità, io ho preso “a prestito”, ho
preso senza rubare e copiare, mi sono lasciato stimolare sia dal suono
particolare di questi strumenti popolari in Grecia sia dalla musica che di solito
i loro suonatori creavano, ma soprattutto da quel particolare modo con cui quei
musicisti si rapportavano allo strumento creando perfino una originale
tecnica di realizzazione di passaggi e stili musicali di grandissimo fascino :
trilli speciali, acciaccature doppie e triple, microglissati e portamenti laceranti
l’animo, ampie melodie e agilità straordinarie su scale davvero complicate che
tuttora molti dei grandi improvvisatori jazz trovano difficoltà e non riescono
nemmeno ad accennare simili tensioni ricadendo nel solito consumarsi in
successioni di mille note in modo banale e accademico.
Dopo
Che devo
dire, bei tempi ?. Sì, è stato bello
ma a quanto pare non solo non è finito ma è soggetto ormai a sviluppi
nonostante, insisto, nonostante la crisi che in Italia c’è per il difficile e
conflittuale rapporto tra mandolinisti che si spaventano di fronte non dico al
nuovo ma allo appena distante dalla normalità decisa dalla cultura di stampo
televisivo nazionalpopolare ( attualmente direi neopopulista), e la possibilità
di restituire allo strumento mandolino la sua identità sia storica e reale. Con
le dovute e non rare ormai eccezioni.
Roma, martedì 5 ottobre 2004