© Dimitri Nicolau

 

Un po’ di storia e la scoperta dei Plettri

 

Caro Arnold, mi domandi un po’ di storia del come mi sono avvicinato agli strumenti a plettro, al mandolino.

Ripercorrere con la memoria gli avvenimenti che mi hanno portato a lasciarmi sedurre dal suono musicale di uno strumento come il mandolino un po’ mi costringe a rievocare attraverso la patina del tempo diversi momenti, a volte distanti nel tempo di allora, a volte senza una ragione precisa, ma avvenimenti direi occasionali a cui io prestavo una attenzione che oggi direi del tutto irrazionale, libera.

Tuttora nel mio paese d’origine la musica popolare, la “laikì moussikì” insieme alla “dimotikì moussikì” è sempre presente e nonostante l’inquinamento acustico dovuto sia alla imposizione di sonorità stupide e razionali (le due cose ho scoperto che  stanno sempre insieme) sia per il costante annullamento che agisce la cultura musicale imposta dalle multinazionali della produzione, consumo e diffusione musicale  nei confronti di tutto ciò che cerca di svilupparsi senza recidersi dalle sue origini storiche.

 

       Negli anni cinquanta e sessanta – per esperienza diretta – anche grazie alla diffusione degli apparecchi radiofonici e poi dei dischi, la musica “popolare” non solo veniva diffusa ma anche, e soprattutto, rinnovata. La strada solcata da Vassilis Tsitsanis, anche se non l’unico da cui molti compositori “colti” come Skalkottas traevano ispirazione e suggerimenti melodici per poi scrivere componimenti di affascinante originalità, portava a Hadjidakis, a Theodorakis, al giovane allora Xarhàkos e anche ad altri molto interessanti musicalmente colleghi. E noi ragazzi ascoltatori con sempre maggiore trepidazione giravamo la manopola della sintonia a cercare quei canali radiofonici in cui queste musiche nuove venivano sparse.  Le sonorità derivate dalla Asia minore (la costa turca che si affaccia sull’Egeo, culla della “conservazione”  della cultura greca – Efeso ecc.) attraverso gli emigrati greci in Grecia venivano immediamente assunte come linguaggio naturale dalla gente di tutto il paese che lasciava da parte e senza tante cerimonie tutto quello che la cultura musicale decadente occidentale nonché quella colonizzante americana aveva imposto fino a quegli anni, dal periodo che va da prima a fino al dopo la seconda guerra mondiale. E questo non era un tornare indietro, non era un recupero nostalgico di conservatori incalliti che a loro volta annullavano il nuovo, il progresso, il moderno. No. Era qualcosa di diverso.

 

       Questa mia asserzione monosillabica di prima trae la sua forza dal fatto che nelle coste della Asia minore la musica non aveva perso il suo rapporto sonoro, storico con quella della antica Grecia, un lunghissimo ponte dai greci di Efeso, le vicine Cicladi e dintorni, tramite i bizantini fino ai commercianti e artigiani greci che popolavano quelle coste e che, appunto, nel primo novecento sono stati espulsi e costretti a “tornare” a vivere emigrati in quella patria che li vedeva originari da millenni. E qui e con queste considerazioni storiche mi piacerebbe aggiungere un altro pensiero che contribuirebbe a chiarire un'altra questione riguardo questa musica che con una parola “rembètiki moussikì” veniva definita come musica appartenente ed espressione autentica di un sottoproletariato greco in rivolta sociale. Bisogna correggere questa leggenda che fa soltanto confusione e intenzionalmente attribuisce una valenza artistica creativa alla cultura della sofferenza e della droga, come se derivasse da esse. Possiamo dire che queste persone prendevano  “a prestito” sonorità create da tensioni musicali particolari (l’uso delle scale antiche e specialmente quella dell’ipofrigio cromatico) perché corrispondeva allo stato d’animo, all’ethos che vivevano nel loro essere relegati, proscritti,  emarginati da una società asfittica, codina e piccolo borghese. Tensioni simili e a volte ancor più sviluppate le troviamo nella musica Araba ad esempio della zona dell’Afganistan che come si sa è una zona in cui Alessandro il macedone aveva costruito città intere come per esempio Kandahar che vuol dire proprio città di Alessando il grande. 

 

       Strane ma affascinanti storie davvero.

Ora, il “suono” di queste persone, il loro humus musicale che si basava esclusivamente su scale antiche – a volte, il più delle volte a loro totale insaputa – veniva realizzato con il Bouzouki, il Violino, il Mandolino e tutta quella serie di strumenti a pizzico dalla derivazione davvero remotissima.

Nel mio paese di circa seimila persone che si trova nel centro dell’Attica c’erano molti di questi emigrati in patria e quello che mi piaceva era che suonavano e cantavano sempre. Il sarto che all’improvviso mollava giù i ferro da stiro a carboni accesi e impugnava il suo violino e si faceva una sonatina come preso da una strana e improvvisa voglia di dire qualcosa al mondo. O come il macellaio che canticchiando sottovoce nel mentre faceva un bel taglio di carne ad una bella contadina e quando lei gli chiedeva: _Che state cantando Sor Kostantino?, lui, che in fondo non vedeva l’ora, da dietro la tenda del retrobottega sganciava dal chiodo il sempre pronto mandolino e a voce ora piena ora improvvisamente morbida si accompagnava il canto che faceva veramente venire la pelle d’oca anche a me bambino. Evidentemente con la bella contadina si piacevano molto. In un altro breve scritto “Il mandolino ritrovato” ho un po’ raccontato le mie sensazione e l’avvicinarmi a questo strumento in quell’epoca lontana.

 

       Ecco, sarà fortuna, sarà interesse personale, sarà una mia profonda risposta allo stimolo musicale che aveva queste caratteristiche (le tensioni melodiche e poliritmiche non “classiche e accademiche”), sarà la mia esigenza di una lingua musicale ini cui questi suoni si trovavo a suonare piu veri più belli e più corispondenti alle mie “immagini” ed emozioni musicali, sarà tutto questo insieme, non lo so, ma è un fatto che la mia prima composizione è con mandolino e pianoforte.

Adopero volutamente la parola con e non per mandolino e non perché io l’ho composta con lo strumento in mano. Ma con l’identità dello strumento, con quello che solo questo strumento offre nello spazio acustico compreso il tremolo che tuttora fa storcere il naso agli aridi puristi.

 

       Ora, dopo tanti anni, lo posso dire con maggiore semplicità, io ho preso “a prestito”, ho preso senza rubare e copiare, mi sono lasciato stimolare sia dal suono particolare di questi strumenti popolari in Grecia sia dalla musica che di solito i loro suonatori creavano, ma soprattutto da quel particolare modo con cui quei musicisti si rapportavano allo strumento creando perfino una originale tecnica di realizzazione di passaggi e stili musicali di grandissimo fascino : trilli speciali, acciaccature doppie e triple, microglissati e portamenti laceranti l’animo, ampie melodie e agilità straordinarie su scale davvero complicate che tuttora molti dei grandi improvvisatori jazz trovano difficoltà e non riescono nemmeno ad accennare simili tensioni ricadendo nel solito consumarsi in successioni di mille note in modo banale e accademico.

 

       Dopo la Sonata del 1959 che grazie a Ugo Orlandi e a Fabio Menditto io ho recuperato dalla cassapanca greca in cui era rimasto una parte del manoscritto e parecchi appunti sparsi di allora, ho inserito il mandolino in una ampia composizione sinfonica nel 1975/76, “la Melodia ritrovata op.41” che è stata realizzata per la prima volta dopo circa dieci anni nell’ambito di “Atene capitale della cultura” e per “L’anno europeo della musica 1985”. Suonava la formidabile orchestra giovanile d’Olanda. E’ stato li che conobbi la mandolinista Annemie Hermans che timidamente si avvicinò sia per farmi ascoltare il suo strumento sia per propormi di scrivere ancora per plettri. E io scrissi nel 1986, dopo tanti anni di sonno mandolinistico,  “La belle et la bête” opus 68. Poi il fortunato per me incontro con tutti gli interpreti dei plettri che hanno aricchito la mia conoscenza verso questo strumento, mi hanno fatto conoscere uno strumento nuovo, un mondo nuovo. E io ho sempre reagito scrivendo. Poi le critiche che regolarmente sono piombate come giudizi che scrivevo (o scrivo) difficile, e le mie risposte che dicevano che è inutile restare anchilosati sul gia fatto e a volte fatto anche male, e molti di loro sono stati sempre sia dei benevoli grandi provocatori nei miei confronti sia complici aggiungendo nuove peroposte. Poi una composizione “provocata”  da Orlandi nuovamente che molti mi hanno detto essere anche un capolavoro, la “In Memoriam a Siegfrid Behrend” opus 102 in, mi permetto di dire perché è senza equivoci, io mi sono letteralmente “fregato” degli strumenti e ho pensato soltanto musicalmente lasciandomi andare al flusso emotivo che come un fiume faceva proseguire gli avvenimenti sonori sulla carta con un procedere non per logica ma solo per emozione. E questo me lo sono potuto permettere proprio sia per la mia acquisita negli anni conoscenza dello strumento ma sopratutto grazie alla certezza di un rapporto con musicisti e interpreti che non avevano paura della musica e della libera espressione altrui. E poi tante altre composizioni per questo strumento.

 

       Che devo dire, bei tempi ?. Sì, è stato bello ma a quanto pare non solo non è finito ma è soggetto ormai a sviluppi nonostante, insisto, nonostante la crisi che in Italia c’è per il difficile e conflittuale rapporto tra mandolinisti che si spaventano di fronte non dico al nuovo ma allo appena distante dalla normalità decisa dalla cultura di stampo televisivo nazionalpopolare ( attualmente direi neopopulista), e la possibilità di restituire allo strumento mandolino la sua identità sia storica e reale. Con le dovute e non rare ormai eccezioni.

 

© Dimitri Nicolau

Roma, martedì 5 ottobre 2004